PARIS
1
L’odore che si respirava sulla metro era nauseante, per non
parlare della moltitudine di corpi pressati in quei pochi metri quadrati.
Francesca ispirò una lenta boccata di aria viziata, gli occhi
verdi puntati sui finestrini ermeticamente sigillati. La ragazza avvertiva la
vibrazione del cellulare infilato nella tasca dei jeans ma, per quanti
tentativi facesse, non riusciva a muoversi di un millimetro; intorno a lei i
passeggeri la urtavano, aggrappandosi saldamente alle maniglie di sicurezza.
Finalmente, le porte si aprirono e una voce metallica
annunciò la stazione raggiunta. Tirò un sospiro di sollievo, osservando la
moltitudine avventarsi sull’uscita, ma si trattò di un breve istante perché una
seconda raffica di turisti invase nuovamente la metro.
Arretrò di qualche passo, tentando di sottrarsi alla nuova
ondata, quando avvertì un lamento alle sue spalle e, incuriosita, si voltò.
Osservò uno sconosciuto indicarle il piede premuto energicamente sul proprio. «Oh,
excuse-moi!» esclamò lei, nel suo francese claudicante, ritraendosi di scatto
mentre le porte si richiudevano.
Sorrise tra sé, aggrappandosi saldamente alla maniglia e
osservò i passeggeri che le erano intorno: così diversi tra loro per età, etnia
e condizione. Mai, aveva visto un tale insieme variegato di persone. Quelli in
piedi erano turisti, s’intuiva all’istante dalle videocamere a tracolla e le
ingombranti cartine evidenziate in più punti, mentre quelli seduti erano più
tranquilli, studenti perlopiù, immersi nei propri pensieri o in libri dai
titoli incomprensibili, proprio come il giovane che le stava a pochi metri di
distanza. Indossava jeans e maglietta sdruciti, gli occhi celati da occhiali a
specchio erano fissi sulle pagine di una rivista, auricolari nelle orecchie e
uno zaino sulle spalle larghe.
Francesca indugiò sul fisico prestante: i bicipiti messi in
evidenza dalla t-shirt e un minuscolo tatuaggio sull’avambraccio sinistro.
Tentò di mettere a fuoco l’irrisorio disegno, quando la metro si fermò di colpo
e, per poco, non perse l’equilibrio.
Controllò la tappa successiva sul percorso elettronico: era
quasi arrivata. Tornò a concentrarsi sul giovane, non indossava più gli
occhiali, ora, e le iridi azzurre fissavano un punto preciso: lei.
La ragazza distolse
immediatamente lo sguardo. In quell’istante, la metro si arrestò nella stazione
del Louvre, Francesca si avviò verso le porte scorrevoli, si districò dalla
ressa indiavolata e, finalmente, raggiunse il pavimento lastricato della
fermata. Immobile a pochi passi dai binari, estrasse il cellulare : cinque
chiamate perse. Osservò il nome della madre, scritto a caratteri cubitali sul display,
e si avviò verso l’uscita della stazione, ignara del giovane che la guardava
dal finestrino.
Qualche ora più tardi, la porta della stanza numero 304 si
richiuse con un tonfo secco e Francesca si addossò all’uscio, esausta.
Abbandonò lo zaino a terra e si precipitò verso la stanza da bagno.
«Fra, ma dove ti eri cacciata? Sono ore che provo a
chiamarti!» esclamò una voce alle sue spalle.
La ragazza si voltò a osservare la giovane dai lunghi
capelli neri e le iridi azzurre, indossava sottile vestaglietta di pizzo rosa e
teneva le mani incrociate sul petto abbondante.
«L’avevo messo silenzioso. Mia madre non faceva che
squillarmi ogni trenta secondi» si avvicinò alla porta del bagno.
«Ti conviene ripensarci, non credo che Ros te lo restituirà
tanto presto» la avvertì l’amica «è da un’ora e mezza che sta là dentro» disse,
alzando gli occhi al cielo.
Francesca fissò l’uscio serrato. «Ros, hai trenta secondi
per uscire!» gridò, battendo sulla porta laccata, senza, tuttavia, ottenere
alcuna risposta.
Ramona scosse il capo, lasciandosi cadere sul letto
matrimoniale della stanza attigua, imitata dall’amica.
Francesca scrutò la camera in penombra, immersa in un
disordine inquietante: buste di ogni forma e colore giacevano nei quattro
angoli della stanza; sul tavolo, appoggiato alla parete, piatti invitanti
facevano mostra di sé, per non parlare delle bottigliette di Cola disseminate
un po’ ovunque.
«A parte svuotare il frigo bar e andare in giro per
boutique, che avete fatto oggi?» chiese Francesca, chiudendo gli occhi. Il
contatto con il morbido materasso la rigenerava, dopo la lunga giornata trascorsa
tra opere d’arte e antichi cimeli.
«E ti pare poco?» commentò Ramona, sfogliando l’enigmistica.
A quelle parole, Francesca si sollevò sui gomiti, incredula.
«Non mi dirai che avete passato l’intera giornata chiuse qui dentro?»
«Ma che scherzi? Siamo anche andate a curiosare negli atelier
più famosi di Parigi» rispose l’amica con noncuranza e voltandosi a
guardarla con aria sognante, «non sai che ti sei persa!»
Un paio di secondi e le due ragazze scoppiarono in allegre
risate, abbandonandosi sul letto disfatto. Francesca sorrise, richiudendo gli
occhi, e nella stanza scese un pacifico silenzio. Era così bello restare l’una
di fianco all’altra, zitte, ad ascoltare il loro respiro che andava
all’unisono. Non esisteva niente di altrettanto speciale.
Francesca sbirciò Ramona: i morbidi capelli che le
ricadevano sul petto invitante, i lineamenti del volto rilassati e quella minuscola
vestaglia che ne accentuava l’innata femminilità. Sorrise impercettibilmente
nell’ammirare la sua amica d’infanzia. Da che ricordava, erano sempre state
inseparabili. Un’amicizia, la loro, che andava oltre stupide invidie e rivalse,
un legame autentico tra i più veri. Amava tutto di Ramona: l’infinita generosità,
la dolcezza, l’incredibile bontà d’animo. Al mondo, non esisteva amica migliore
di lei.
«Fra, finalmente sei tornata. Guarda che meraviglia!»
esclamò improvvisamente una voce inconfondibile, che la scosse dal suo torpore.
Francesca osservò Rossella ai piedi del letto, avvolta in un
accappatoio di finissimo cotone con i riccioli chiari che le sfuggivano dall’asciugamano,
gocciolando sul pavimento. Cominciò a mostrarle canotte di Kevin Kline,
occhiali Dior e altri capi firmati, elencando tutte le boutique visitate quel
pomeriggio.
Francesca si scambiò un’occhiata significativa con Ramona e
contemplò Rossella: la sua bellezza era innegabile, ma che dire del resto? Si
conoscevano da poco più di un anno, frequentavano la stessa università, ma era
talmente diversa da Ramona. Francesca ancora faticava a comprendere il motivo
di quel viaggio a tre.
«E tu cos’hai acquistato, oggi?» chiese Rossella, rimirandosi
nello specchio, alle sue spalle.
«Questo souvenir» rispose Francesca, mostrandole una
stampa a colori de “La Venere del Botticelli”.
Rossella la osservò incredula. «Un disegno?» esclamò,
liberando la bionda chioma dall’asciugamano.
Francesca scosse il capo, sempre più convinta dell’errore
commesso nell’invitare Rossella a Parigi.
«Questo non è un disegno, ma un dipinto!» la corresse,
spazientita.
Rossella pettinava i capelli bagnati. «Oh!» mormorò
distratta.
Francesca sospirò, avvertendo la stizza salirle al cuore e
si avviò verso il bagno. Desiderava solo una lunga doccia e un bel letto caldo.
«Cosa ti metti questa sera?» la trattenne Rossella.
«Il pigiama. Che altro?» rispose distratta, entrando nel
bagno ancora immerso nei vapori.
L’amica la seguì, esterrefatta. «Hai voglia di scherzare?
Stasera andiamo sulla Torre, l’hai dimenticato? Ramona ha prenotato il tavolo
da mesi» ingigantì la ragazza.
A quelle parole, Francesca si girò a fissarla «Io non vengo
su nessuna Torre Eiffel. Sono sfinita!» ribatté seccamente, aprendo il box
doccia.
«Sfido io, sei andata in giro per tutto il giorno in cerca
di un disegno!» commentò Rossella con disapprovazione.
Francesca la fissò, livida: un’altra parola e l’avrebbe
presa a schiaffi.
In quell’istante, Ramona fece capolino sulla soglia del
bagno. «Dovrai pur cenare prima di coricarti» esordì docilmente.
«Coricarsi? Questa parola non compare sul mio vocabolario»
commentò Rossella, ammirandosi ininterrottamente.
Francesca la squadrò. «Per forza. Ne conterrà, sì e no,
dieci.»
Ramona sorrise impercettibilmente. «Dai, fallo per me. Non
puoi andare a letto senza cena, domani dovrai essere in formissima per
Versailles. Ceniamo e poi tutte a nanna. Promesso!» disse la ragazza con occhi
supplicanti.
«Oh, è vero, domani andremo a Versalli … sono ancora
indecisa sulla t-shirt» trillò Rossella, scomparendo oltre la porta del
bagno.
«Le hai detto che non ci saranno i paparazzi?» tuonò Francesca,
sciogliendo i capelli fiammeggianti. Ramona annuì, mentre l’amica riprendeva «Ancora
devo capire perché diavolo l'hai invitata a venire con noi a Parigi» sussurrò
indignata. Ramona la rimproverò silenziosamente, ma lei la ignorò. «Per colpa
sua, ti stai perdendo tutte le meraviglie di Parigi. Dovevi vedere il Louvre
oggi, era una cosa… non ci sono parole per definirlo!» esclamò raggiante, ricordando
gli incredibili capolavori.
Ramona le sorrise. «Dimentichi che vengo a Parigi almeno
cinque volte l’anno» le ricordò.
«Ma non l’hai mai vissuta, ricevimenti di gala, matrimoni,
feste. Non l’hai mai vista veramente, non hai mai assaporato quanto può essere
magico questo meraviglioso angolo di mondo.»
«Tu sei magica!» sussurrò, baciandole le guance infervorate
«E sei anche la mia migliore amica, quindi niente storie per questa sera»
ordinò risoluta. Francesca fece per replicare, ma Ramona le tappò la bocca con
la mano, riducendola al silenzio.
«Tra un’ora, verrai a cena con me sulla Torre Eiffel e
domattina sarò tutta tua a Versailles. Promesso!» dichiarò, sparendo oltre la
soglia.
La ragazza sospirò, rassegnata,
ed entrò nella doccia.
Un’ora e mezza dopo, le tre ragazze facevano il loro
ingresso nel ristorante.
Rossella, infilata in un elegante abito rosso, avanzava
accanto a Ramona con gli occhi che le brillavano dall’emozione mentre, dietro
di loro, seguiva una reticente Francesca.
Il locale occupava tutta la terrazza del primo piano della
Torre Eiffel. Le pareti, costituite da enormi vetrate infrangibili, mostravano
un panorama unico nel suo genere; le luci soffuse della sala donavano un tocco
di raffinata eleganza, per non parlare del personale impeccabile e dei tavoli
imbanditi, posti in punti strategici.
Francesca tallonò le amiche al bar; lì, un garçon in
divisa mostrò loro il tavolo riservato, dal quale si godeva di una vista
invidiabile.
La ragazza osservò le amiche seguire il cameriere e si
avvicinò al bancone, dietro al quale tre lacchè servivano gli aperitivi.
Doveva svegliarsi o sarebbe crollata all’istante dalla stanchezza.
«Bonsoir» esordì, rammentando alcune nozioni di quell’ostica
lingua «je voudrais un…» s’interruppe, sotto lo sguardo incuriosito del
cameriere «un spriz.»
I camerieri la osservavano, palesemente divertiti.
«Vous avez compris?» chiese. Uno dei tre scosse il
capo, indugiando sulla generosa scollatura del suo abito. «Allor… je
voudrais de vin blanc e de aperol, ok?» riprovò, ma lo sguardo canzonatorio
del cameriere non lasciava adito a dubbi.
«Deux apéritif!» esclamò una voce sconosciuta.
Francesca osservò il ragazzo allungare i bicchieri oltre le sue
spalle e si ritrovò davanti a un estraneo dai profondi occhi azzurri e il
sorriso gioviale.
Indugiò sul fisico prestante, mal celato dall’elegante
doppiopetto. C'era qualcosa di assolutamente familiare in qual ragazzo.
«Pour toi» disse lui, indicandole l’aperitivo.
Francesca afferrò il bicchiere, sorpresa, mentre il giovane
la ammirava nell’abito color lavanda.
«Sembravi in difficoltà» si giustificò, sorridendole.
A quelle parole, la ragazza sgranò gli occhi. «Parli
italiano!» quasi gridò per il sollievo.
Lo sconosciuto osservò i presenti che li fissavano e annuì «Spero
non sia un reato» commentò divertito, mentre lei arrossiva.
Distolse lo sguardo, imbarazzata e al tempo stesso irritata
dalla propria imprevedibile emotività.
«Qui si usa dire “A la votre”» continuò il giovane,
alzando il calice.
La ragazza lo imitò e, tentando di placare l’improvvisa
agitazione, sorseggiò la deliziosa bevanda. Lo scrutava, sempre più convinta di
averlo già incontrato prima, senza riuscire a ricordare dove.
Lui, dal canto suo, ammirava i capelli rossi di lei e gli
occhi limpidi. In quell’istante, Francesca scorse Ramona farle cenno di raggiungerle
e l’incanto svanì.
«Grazie per l’aperitivo, se mi dici quanto ti devo…»
Lui la interruppe. «Non sei contenta di bere gratis, dopo
quello che hai pagato per un inconsistente panino al Louvre?»
A quel punto, tutto si schiarì nella sua mente: rivide la
metro affollata, la ressa impossibile e lo studente con gli occhiali a
specchio. Era lui! Ma come poteva ricordarsi di lei? Aveva incrociato il suo
sguardo, sì e no, per un secondo. L’aveva, forse, seguita? Di nuovo, un rossore
improvviso le imporporò le guance e, a disagio, sondò le braccia atletiche del
suo interlocutore alla ricerca del minuscolo tatuaggio.
«Philippe» chiamò una voce alle loro spalle e un colorito
gruppetto di sconosciuti si affiancò loro.
Fu questione di secondi e il giovane si allontanò con gli
amici, salutandola cortesemente. Francesca lo osservò uscire dal ristorante e
raggiunse le amiche a malincuore.
La serata proseguì senza altre emozioni ma la notte,
sdraiata accanto a Ramona nell’immenso letto matrimoniale, rammentò gli occhi
azzurri del giovane e il cuore accelerò istintivamente i suoi battiti,
scivolando nell’oblio.
2
Il sole illuminava l’immensa fontana, creando giochi di luce.
Francesca strinse gli occhi, tentando di mettere a fuoco la
vastità del giardino, ma era cosa impossibile.
«Facciamone una qui» esclamò Rossella, correndo a ridosso
dell’imponente scultura.
Ramona e Francesca la assecondarono con riluttanza; dal
mattino, non facevano che seguirla in ogni angolo della Reggia di Versailles, per
immortalarla in pose pressoché identiche.
«Che cosa dicevi riguardo all’errore commesso nel condurla a
Parigi?» sussurrò Ramona all’orecchio di Francesca che rise divertita.
Rossella le attendeva accanto alla fonte cristallina, picchiettando
il piede a terra, ma Francesca la ignorò, osservando in lontananza il fiume che
Luigi XIV aveva fatto costruire per varare personalmente le sue imponenti navi.
Non riusciva ancora a credere di essere veramente a Versailles. Quante volte
l’aveva sognata e ora, eccola lì, smarrita tra quegli immensi giardini lussureggianti.
Non esisteva niente di altrettanto magico al mondo.
«Fra, allora, ti muovi?» la chiamò Rossella, scuotendola dai
suoi pensieri.
La ragazza sospirò e, spazientita, raggiunse le amiche.
«Facciamone almeno una, insieme!» protestò Ramona «Hai riempito
quasi tutta la memory con i tuoi primi piani!»
La ragazza sbuffò, avvicinandosi a un turista che dava loro
le spalle. Francesca osservò l’amica porgergli la fotocamera tra sorrisi
ammalianti e scosse il capo. «Merci» cinguettò Rossella, conducendo il
malcapitato presso la fontana.
Francesca osservò lo sconosciuto e il suo respiro si mozzò.
Non era possibile, a pochi passi da lei c’era il giovane che aveva incontrato sulla
Torre Eiffel la sera precedente: lo studente della metro. La ragazza lo fissò
attonita. I muscoli spuntavano dalla maglietta attillata e dagli shorts colorati,
gli occhiali trattenevano i capelli chiari e il piccolo tatuaggio faceva mostra
di sé sull’avambraccio. Ora lo distingueva chiaramente: si trattava di una
lettera, impressa indelebilmente sulla sua pelle abbronzata, una minuscola ‘F’.
Anche il giovane apparve sorpreso.
«Allora questa foto?» irruppe Rossella, spezzando
quell’atmosfera surreale.
Lui si riscosse, impugnando la macchina fotografica. «Sì,
scusa» esclamò, mentre Ramona e Francesca si scambiavano un’occhiata complice.
Il ragazzo le inquadrò e scattò velocemente la foto, poi
spostò l’obiettivo su Francesca, indugiando sul suo volto delicato e
immancabilmente arrossato. Fece un paio di scatti e restituì la fotocamera a
Rossella mentre Francesca, ignara, gli si avvicinò.
«Finirò col credere che mi stai seguendo!» esordì la
ragazza, sorridendo.
Lui ricambiò il
sorriso, incapace di distogliere gli occhi dal suo viso. «Potrei dire lo stesso
di te» ribatté divertito, sotto lo sguardo incuriosito di Rossella.
«Vi conoscete?» chiese.
Francesca scosse il capo. «Ci siamo incrociati un paio di
volte» spiegò.
«Mio Dio, ma quello è il giardino di Maria Antonia! Ve lo immaginate
che foto?» gridò Rossella, indicando il labirinto di aiuole poco distante. «Che
cosa stiamo aspettando?» esclamò, trascinando Ramona per i sentieri verdeggianti.
«Un’appassionata di storia?» chiese il ragazzo.
Lei dissentì divertita. «Tutt’altro» replicò, osservandole
scomparire oltre le siepi.
La ragazza sbirciava il giovane a pochi passi da lei, il
cuore le martellava nel petto. «Sarà meglio che le raggiunga, altrimenti chi le
trova più!»
«Ti accompagno. Questi giardini li conosco come le mie
tasche» propose inaspettatamente il giovane.
Francesca lo osservò, incuriosita. «Okay» rispose,
avvertendo i battiti farsi sempre più veloci.
Si avviarono.
«Sarebbe il caso di presentarsi, tu che ne dici? È di dovere
al terzo appuntamento» esordì lui, spezzando il silenzio.
«Di solito, lo è al primo» rise lei. «Comunque, io mi chiamo
Francesca.»
«Philippe.»
«Lo so» ribatté la ragazza «l’ho sentito dai tuoi amici.»
«Amici? Vorrei tanto sapere, dove sono finiti» sbuffò.
«Li hai persi di vista?» chiese, rallentando il passo.
«Così pare» rispose, mentre raggiungevano il giardino
privato di Maria Antonietta. Lo spiazzo erboso era in ordine perfetto e la
statua della Regina troneggiava al centro.
«Se ti può consolare, anch’io ho perso le mie» disse
Francesca, osservando il giardino deserto.
Philippe taceva con gli occhi fissi sulla statua di marmo
scuro «È talmente perfetta da sembrare viva» commentò, avvicinandosi alla scultura.
Francesca contemplò il capolavoro altrettanto incantata. «Hai
ragione. È meravigliosa! Ancora non mi pare vero di essere proprio qui, nel suo
giardino segreto.»
Lui si voltò a guardarla. «Non eri mai stata a Versailles?»
chiese, mentre raggiungevano una panchina.
«Non ero mai stata in Francia» lo corresse.
«Di dove sei?» chiese incuriosito.
Francesca continuò ad ammirare la statua. «Ferrara. E tu? Sei
italiano anche tu o sbaglio?» gli occhi verdi che lo sondavano.
«Di origini, ma sono nato a Paris.»
«Scherzi? A vederti e a sentirti, sembri italiano a tutti
gli effetti» replicò lei, avvertendo il cuore rallentare i battiti.
«Solo perché ho studiato la lingua. Mia madre è italiana e
mio padre francese. In verità, vengo spesso in Italia, ma nulla può eguagliare
Paris. Nemmeno Venezia.»
Francesca annuì concorde. «E lo dici a me? Io odio Venezia!
Tutta quell’umidità… invece guarda questa Reggia, esiste qualcosa al mondo di
altrettanto perfetto?» chiese con aria sognante.
Philippe la osservava, affascinato; era così dannatamente
bella, con la sua treccia rossa che le arrivava alle spalle, la pelle di
alabastro e quegli occhi verdi. Per non parlare della figura femminile esaltata
dalla minigonna e la camicetta annodata sotto il seno che evidenziava le sue
curve. .
In quell’istante, lei si voltò. «Ho detto qualcosa che non
va?» chiese incuriosita.
Philippe scosse il capo quando la voce squillante di
Rossella ruppe l’incanto. «Fra, ma dov’eri finita?» esclamò la ragazza
raggiungendoli, dietro di lei Ramona.
«Io sono sempre stata qui. Voi piuttosto?»
«Oh, dovevi esserci! Abbiamo scattato delle foto sensazionali»
commentò, ma fu interrotta da Ramona.
«Ho scattato…» la
corresse alzando gli occhi al cielo «in tutto, ci saranno rimasti due scatti
per questa sera!» la informò l’amica.
A quelle parole, Rossella lanciò un gridolino. «Hai voglia
di scherzare, spero? Questa sera andiamo al Moulin Rouge, il locale più famoso
di tutta Parigi e vieni a dirmi che non abbiamo più foto?» quasi gridò posando le
mani sui fianchi. Ramona annuì, paziente, sotto lo sguardo divertito di
Francesca. «Hai idea della gente che ci sarà? E lo spettacolo mozzafiato, i costumi…»
iniziò, ma fu docilmente interrotta da Philippe.
«Non vorrei deluderti, ma credo che di costumi ne vedrai ben
pochi» la informò.
Francesca e Ramona si scambiarono un’occhiata complice. «Risparmia
il fiato!» esclamò quest’ultima «È da due giorni che tentiamo di far capire a
Ros che il Moulin Rouge non è quello del film con la Kidman, ma non c’è verso
di ficcarglielo in quella bella testolina!» e osservando i due seduti sulla
panchina. «Perché non ti unisci a noi? Ci farebbe piacere, vero Fra?» propose,
spiazzando l’amica.
Francesca la fulminò con lo sguardo.
«Purtroppo, devo declinare l'invito. Stasera ho promesso ai
miei amici di andare con loro alla Ville Lumiere.»
«È un vero peccato!» lo interruppe Rossella con il suo Nokia
tra le mani. «Che ne dite di accelerare? Questa sera, dobbiamo essere
impeccabili» e fissando intensamente Francesca « non ti azzardare a dire che
sei stanca! Voglio andare a letto all’alba, visto che sarà la nostra ultima
notte a Parigi» dichiarò.
Francesca la ignorò, alzandosi in piedi con ancora nelle
orecchie l’imbarazzante invito di Ramona.
Era stato un errore raccontarle del loro breve incontro.
Aveva fatto una figura pietosa ma, in fondo, cosa le importava di un perfetto
estraneo che non avrebbe più rivisto?
Rossella si avviò verso la reggia, seguita da una
recalcitrante Ramona e dietro di loro Francesca e Philippe.
«Riuscirai a ritrovare i tuoi amici?» chiese lei,
preoccupata.
Lui le sorrise. «Ce la farò, non temere! Conosco questo
posto a memoria, ormai» disse, stuzzicando la sua innata curiosità.
«T’invidio, sai? Non so cosa darei per vivere a Parigi e
poter venire a Versailles di tanto in tanto» ammise con aria assorta.
Philippe la sbirciava, camminandole accanto. «Allora, partirete
domattina?»
«Domani sera» rispose con gli occhi fissi sulle ragazze che
procedevano spedite, parlottando tra loro.
Anche Philippe le osservava, divertito. «Simpatiche le tue
amiche, soprattutto la biondina» indicò Rossella.
«Se lo dici tu!» commentò dubbiosa. Philippe la guardò
interrogativo e lei continuò. «A dire il vero, la conosco da poco più di un
anno e, se devo essere sincera, non ci vado molto d’accordo» sussurrò «grazie a
Dio c’è Ramona» esclamò, indicando la ragazza dai lunghi capelli neri.
«Ha un viso familiare. Credo di averla già vista da qualche
parte» commentò il giovane, mentre raggiungevano l’ingresso della reggia.
«Niente di più facile! È una Grimani. La sua famiglia è
spesso sulle prime pagine del jet-set. È l’erede di un patrimonio
spropositato» rivelò, mentre il ragazzo annuiva, rammentando la nota famiglia. Il
padre era un noto imprenditore edile e la madre, un’ereditiera milanese.
«Ma non lasciarti ingannare dal suo cognome. È la ragazza
più dolce e generosa che io conosca.»
Francesca scorse le amiche raggiungere il taxi-bus che
le aveva condotte sino a Versailles e si affrettò sulla gradinata esterna,
seguita da Philippe.
I due si arrestarono a pochi passi dalla vettura. «Grazie
per la scorta, senza di te mi sarei sicuramente persa in quel labirinto» disse
Francesca.
«È stato un piacere» rispose, fissandola intensamente.
«Allora, stasera Moulin Rouge e domani passeggiata lungo la Senna?» chiese,
trattenendola per qualche istante ancora.
Francesca sospirò. «Magari! Domani mi aspetterà una giornata
di puro shopping. Se sarò fortunata, forse, riuscirò a scorgere
Notre-Dame dal taxi!»
Philippe la ascoltava, conscio della sua profonda
ammirazione per quella meravigliosa città. «E tu non ami lo shopping»
intuì sorridendo.
«Lo odio con tutta me stessa. Si può venire a Parigi e non
vedere la Senna, Notre-Dame e chissà quante altre bellezze nascoste?» sbuffò
infastidita.
Lui osservò le ragazze salire sul taxi alle loro spalle. «Se
ti va, possiamo porvi rimedio. Hai mai visitato il museo di Orsay? È un vero e
proprio spettacolo.»
«Ancora più spettacolare del Louvre?» chiese incuriosita.
«Assolutamente sì!» dichiarò «Allora? Ti andrebbe di
visitarlo con un perfetto sconosciuto?» propose spiazzandola.
A quelle parole, il cuore della ragazza scalpitò. «Con te?»
chiese, incredula.
«Ti assicuro che sono assolutamente innocuo! Sarò il tuo Cicerone
.»
Lei sgranò gli occhi, felice. «Ma… e i tuoi amici?»
«Faranno a meno di me per un giorno. Loro, piuttosto?»
ribatté, indicando le due ragazze che, impazienti, la chiamavano dal finestrino
del taxi.
«Le vedi? Sospireranno di sollievo per la mia assenza»
rispose raggiante.
«Allora è cosa fatta! Domani, alle nove, nella hall del
tuo hotel» le disse, allontanandosi.
«Aspetta» lo richiamò «non ti ho nemmeno detto dove sto!»
«Non ce n’è bisogno. Ti troverò, fidati!» le assicurò,
sparendo tra la folla all’ingresso.
Francesca osservò i turisti
innervositi dall’attesa e sorrise, raggiante, affrettandosi a salire sulla
vettura.
La sala da pranzo era un tripudio di colori e schiamazzi:
gli ospiti dell’albergo si accalcavano dinanzi ai cornetti caldi e alla macchina
del caffè come impazziti.
Francesca li contemplò per un breve istante. Non le ci volle
molto per dedurne la nazionalità. Italiani. Cos’altro? Scosse il capo, premendosi
la mano sulla tempia destra. Si era svegliata con una leggera emicrania, dopo
l’interminabile serata al Moulin Rouge, ma nessun mal di testa al mondo
l’avrebbe potuta distogliere dall’appuntamento di quella mattina: ancora non le
sembrava vero che avrebbe visitato Parigi con un perfetto sconosciuto. Nelle
orecchie, i maliziosi commenti di Ramona, uniti ai gridolini eccitati di
Rossella.
In quell’istante, una caraffa di latte si frantumò sul
tappeto cremisi, provocando un suono insopportabile per la sua testa dolente.
Non sarebbe rimasta un istante di più in quella sala, a costo di dover
rinunciare alla colazione.
Decisa, raggiunse la hall e lo intravide, fermo
davanti alle porte scorrevoli: short e maglietta attillata, occhiali
dalle lenti scure e auricolari nelle orecchie impreziosite da due
anellini.
Avvertì un tuffo al cuore mentre lo raggiungeva; dimenticando
la colazione, i commenti delle amiche e persino il mal di testa.
Lui la ammirava, colpito dalla sua semplicità disarmante:
l’abito corto, verde smeraldo come il colore dei suoi occhi, i capelli
fiammeggianti raccolti in una sbarazzina coda di cavallo e la fotocamera a
tracolla.
«Trovata!» esordì Philippe sorridendole.
Lei annuì, colpita. «Ora
ne ho le prove, tu mi stai seguendo!» disse, avvertendo la tensione allentarsi.
Lui si premette il petto con la mano. «Beccato!» e
sbirciando oltre la sua spalla «Tu non fai colazione la mattina?» chiese,
indicando la sala affollata.
A quelle parole, Francesca lo osservò. «Come sai che…?»
«Il tuo alito!» le rispose, arricciando il naso.
La ragazza lo ascoltava con gli occhi sgranati
dall’imbarazzo, ma si trattò di un istante. «Bugiardo!» alzò la voce, mentre
lui scoppiava in una sonora risata.
«Dai, vieni, Paris ci attende» disse Philippe uscendo nel
sole del mattino «prima, però, la colazione» ordinò intransigente.
Francesca annuì, felice, mentre l’agitazione lasciava spazio
a una serenità innata.
Lo seguì in una graziosa boulangerie e, lì, si lasciò
conquistare dalla pasta di fragole e dal più buon caffè che avesse mai
assaggiato. Gustava le prelibatezze, perfettamente a proprio agio con quello sconosciuto.
Una mezz’ora dopo, i due raggiungevano la metro più vicina,
diretti al famoso museo di Orsay. «Adesso infilerai i tuoi auricolari, fingendo
di leggere?» gli chiese.
Philippe rammentò il loro primo incontro. «Solo se tu
inizierai a scandagliare ogni centimetro quadrato del mio corpo» rise mentre
lei arrossiva di colpo.
«Cercavo solo il tuo minuscolo tatuaggio» si giustificò,
indicando l’avambraccio con i muscoli in rilievo. «Che cosa rappresenta? Non certo
il tuo nome.»
«Magari il tuo.»
A quelle parole, lei avvertì un guizzo alla bocca dello
stomaco e distolse lo sguardo, mentre la metro si arrestava nella stazione di
Orsay. Subito, si precipitò oltre le porte scorrevoli, mettendo fine a quella
conversazione imbarazzante.
Per il resto della mattinata i due visitarono il museo,
attratti dalle sculture immacolate, dalle statue e dai dipinti, primi fra
tutti, quelli di Monet.
«Guarda che meraviglia!» esclamò Francesca tra il mormorio
generale. Se ne stava immobile, attonita, di fronte al dipinto “Ninfee blu” di
Monet. Gli occhi che scrutavano ogni particolare e la fotocamera che scattava
come impazzita.
«Credevo non avessi più foto!»
«Questo significa che, per una volta, sono io a
sorprenderti!» sorrise, osservando il capolavoro.
Lui annuì, continuando a contemplarla in religioso silenzio.
Le iridi color smeraldo brillavano di fronte a quello sfavillio di colori,
rapiti, assuefatti dall’arte e dalla poesia di quel luogo.
Qualche ora dopo, entravano in una tavola calda e, dopo un
frettoloso panino, eccoli sfrecciare verso Notre-Dame, rapidi, impazienti,
lottando contro il tempo che, inesorabile, avanzava tingendo il mondo di rosa.
Un’ora dopo erano fermi su Pont Alexandre III «Hai mai visto
niente di più bello?» chiese Philippe, indicando il meraviglioso tramonto che
sfilava davanti a loro.
«Mai dire mai!» rispose la ragazza e tra i due calò un
silenzio surreale, interrotto unicamente dalle auto che saettavano a qualche
metro di distanza.
Francesca ammirava il ponte su cui si trovavano, ricco d’intarsi
preziosi, rapita da quell’innato splendore. «È tutto così magico, qui. Come si
può tornare a casa senza l’amaro in bocca?» commentò con aria già nostalgica.
«È davvero così tremenda la tua città?» chiese Philippe,
distogliendo l’attenzione dal tramonto infuocato.
Lei si scosse dal proprio torpore. «Purtroppo sì» ammise a
malincuore.
«Parlamene» la incoraggiò lui, curioso.
La ragazza dissentì. «No, ora tocca a te. È tutto il giorno
che mi svii. Anch’io voglio conoscere qualcosa di te, me lo devi!» dichiarò
autoritaria.
«Dopo tutto quello che ti ho mostrato oggi, ti devo anche
raccontare la storia della mia vita?»
Francesca non si lasciò intenerire. «È il minimo che tu
possa fare!», dichiarò con gli occhi verdi che brillavano come non mai.
Lui la guardava, incapace di dissentire, dopo la
meravigliosa giornata trascorsa in sua compagnia. «Beh, non c’è poi molto da
dire! Sono nato a Paris, i miei si conobbero proprio su questo ponte. Mia madre
si trasferì per amore di mio padre. Non ho fratelli né sorelle, ho qualche
amico e…»
«Qualche? Ma se quella sera saranno stati circa una
ventina!» commentò Francesca divertita.
Lui, però, non sorrideva, fissando un punto impreciso. «Di
veri amici ne conto pochi, forse un paio, ma è inevitabile nelle mie condizioni.»
Francesca lo ascoltava, assorta, tentando di comprendere le sue misteriose parole.
«Sono ricco. Dannatamente ricco. Forse, tra i più ricchi di Paris e questo, ti
assicuro, pesa a lungo andare» rivelò in un sussurro.
Il giovane parlava a ruota libera come non aveva mai fatto
prima. Eppure, con lei, sotto la luce del crepuscolo, gli veniva così naturale.
«Mia madre faceva la modella a Milano. È un’ereditiera, una Rondoni, di sicuro
la tua amica Ramona sa di chi parlo. Mio padre, invece, è nato a Paris. È uno stilista,
figlio di stilisti. Dior, Prada, Valentino, tutti amici suoi, dal primo all’ultimo.
E poi sono arrivato io, un bambino cresciuto in un mondo di lustrini e di star
internazionali. Sempre sotto le luci della ribalta, sempre sotto i riflettori, ma
quando si spegneranno, sarò solo. Completamente solo» concluse a malincuore.
Francesca gli si avvicinò istintivamente. «Scusami, io non…»
ma le parole si smorzarono in gola.
«Non preoccuparti, sono stato io a volertene parlare» la
fissò intensamente, mentre l’aria della sera si alzava «tu mi fai sentire
così…»
Lei lo ascoltava, specchiandosi nei suoi occhi blu, il cuore
che batteva all’impazzata: «Così bene?» chiese in un mormorio.
«Sì. È tutto talmente insolito, o forse è solo questo
tramonto a renderlo tale, ma ho sentito che potevo dirti qualsiasi cosa, potevo
parlare alla ragazza della metro dagli occhioni verdi. Tu non mi giudichi, tu
non sei come le altre. Sei…» ma lei lo interruppe, emozionata.
«Non sono un granché, solo una ragazzina curiosa che non
capisce mai quando è il momento di stare zitta» disse, chinando il capo.
Philippe dissentì, sollevandole dolcemente il mento con le
calde dita. «Non essere così dura con te stessa.»
Francesca avvertiva il cuore battere furiosamente, le
mancava il respiro. «Lo sono sempre» ammise in un sussurro.
«Mai dire sempre!» mormorò lui, attirandola dolcemente a sé
e lì, sul ponte più famoso di Parigi, tra il traffico e la luce soffusa della
sera, si scambiarono un bacio, breve, non artefatto, né costruito, spontaneo
com’erano loro, sincero com’era stata la lunga giornata trascorsa insieme.
«Scusami, non so cosa…» sussurrò Philippe, a pochi
centimetri dalla sua bocca.
Lei lo fissò, posandogli due dita sulle labbra morbide e lo
baciò di nuovo, più intensamente. Un bacio vibrante come tutto il suo essere.
Rimasero per una buona mezz’ora su quel ponte, immobili,
abbracciati, soli con quelle inattese emozioni mentre la sera avanzava e il
tempo scorreva inesorabile.
Philippe la riaccompagnò all’hotel, in silenzio, camminavano
mano nella mano, confusi e ancora increduli. Si salutarono nella hall dell’albergo,
consci che quello era stato il loro primo e ultimo appuntamento.
«Grazie per la bella giornata» disse Francesca, le gote ancora
in fiamme.
«Grazie a te per avermi ascoltato» rispose lui.
Le loro mani tremavano, strette le une alle altre.
«Allora…» iniziò lei,
ma non c’erano parole appropriate per suggellare quell’addio.
«Allora…» ripeté
Philippe «arrivederci Francesca» e sfiorò di nuovo quelle labbra di fragola.
«Addio» ribatté lei, scuotendosi dall’incanto.
«Arrivederci» la
corresse, gli occhi fissi sui suoi.
Lei sorrise e lui si allontanò,
scomparendo così com’era apparso.
Il rollio delle rotaie la cullava dolcemente, mentre il
treno si avvicinava sempre più alla stazione di Ferrara.
Francesca sbirciò l’orologio al polso di Ramona: mezzanotte
passata. Qualche ora prima stava stretta tra le braccia di Philippe ad ammirare
una Parigi al tramonto e ora si trovava lì, sul treno che da Bologna la
riportava a casa.
«Dio, che foto! Ragazze, ma vi rendete conto della qualità
delle immagini?» esclamò Rossella, distogliendola dai suoi pensieri.
Francesca osservò Ramona immersa nelle canzoni di Elisa,
l’auricolare premuto nelle orecchie e, a malincuore, prestò ascolto all’amica
insistente.
«Fra, guarda qui che roba!» continuava a trillare Rossella.
«Ros, me le avrai mostrate un centinaio di volte tra volo e
treno. Non possiamo fare un break di dieci minuti?» esclamò esasperata.
«Ma che, scherzi? E… e queste?» disse improvvisamente
Rossella, osservando gli scatti sul display luminoso «Cosa ci fanno
queste due foto sulla mia memory?» quasi gridò.
«Quello che ci fanno le altre seicento!» rispose
distrattamente Francesca, osservando dal finestrino le luci della stazione di
Ferrara.
Eccola arrivata. Di nuovo a casa. Di nuovo in quello
sperduto angolo di mondo.
«Cosa ci fai tu
sulla mia fotocamera?» esclamò Rossella, distogliendo Ramona dal suo
dormiveglia.
Francesca continuava a osservare la nebbiolina oltre il
vetro. «Incredibile, vero? Io che compaio tra le tue intoccabili foto. Come possiamo
porre rimedio a questo dilemma esistenziale?» le fece eco la ragazza,
scambiando un’occhiata d’intesa con l’amica assonnata.
«Smettila di prendermi in giro e guarda tu stessa» la
rimbrottò Rossella, mettendole la fotocamera a un palmo dal naso.
Francesca, esasperata, fissò il display, osservando
due suoi primi piani. In lontananza, uno scorcio del giardino di Versailles. «E
allora?» le restituì la macchina.
«Proprio non ci arrivi?» continuò Rossella maliziosa.
Francesca la ignorava, mentre il treno rallentava.
«Non vedi che siamo a
Versailles?» esclamò, tentando di catturare la sua attenzione. «E chi abbiamo
incontrato a Versailles? Chi ci ha scattato una foto vicino alla fontana?»
insisté, mentre l’amica si voltava a fissarla. «Esatto, proprio il tuo
Philippe» rivelò Rossella.
I passeggeri iniziarono a radunare i bagagli, diretti
all’uscita.
«Deve averle scattate dopo averci fatto la foto» commentò
Ramona, afferrando la borsa, gli occhi cerchiati dalla stanchezza.
Francesca taceva, la sua mente era immersa nei ricordi: uno
strano fremito le assalì il cuore, mentre le amiche si affrettavano verso
l’uscita. Non aveva raccontato a nessuno, neppure a Ramona, del bacio sul
ponte. Lo custodiva gelosamente e, ora, quelle foto, quei primi piani.
Sorrise, rammentando gli scatti immortalati quel pomeriggio,
poi seguì le ragazze oltre le porte scorrevoli, impaziente di giungere a casa e
di perdersi tra quelle immagini. Non appena entrò nell’atrio della stazione, si
ritrovò tra le braccia di una donna alta, dai vaporosi riccioli rossi e il
profumo inebriante «Mamma!» esclamò, tentando di sottrarsi dai suoi soffocanti
abbracci.
«Francesca, amore, finalmente sei arrivata! Eravamo così in
pensiero dopo il telegiornale di questa sera, non è vero Federica?» la investì,
rivolgendosi a una ragazzina sui quindici anni.
Francesca incontrò lo sguardo esplicito della sorella, gli
occhi rivolti al cielo: sì, era tornata a casa e alla sua vita claustrofobica.
«Su, andiamo, sarai esausta!» esclamò la madre, afferrando
lo zaino sdrucito.
«Posso salutare le mie amiche o vuoi sequestrarmi all’istante?»
chiese Francesca, volgendosi verso le ragazze poco distanti.
Ramona la abbracciò. «Ci sentiamo domani, reclusa!» esclamò
divertita.
«Solo se il Generale me lo consentirà» replicò Francesca,
mogia.
«Non lo sai che ai condannati si concede sempre un’ultima
telefonata?» trillò Rossella e facendosi pensierosa «Ma di quale Generale
stiamo parlando?»
Francesca scrollò il capo e si allontanò con la madre e la
sorella.
Raggiunsero l’Ibiza parcheggiata in sosta vietata e, lì, la ragazza
poté riabbracciare il padre; l’uomo, dal sorriso gioviale e i folti capelli
scuri, le sorrise, aprendole la portiera. Amava tutto di lui: la sua
positività, la generosità e il rapporto unico che condividevano.
Prese posto sul sedile posteriore, sorda alle continue
domande di Federica, curiosa come tutte le sorelle minori.
Una malinconia improvvisa le catturò il cuore: davanti agli
occhi, Philippe che la salutava in quella hall chiassosa, preludendo un
futuro che non sarebbe mai arrivato.
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